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Sergio Ferri

Nella vita faccio il fotografo. Nel 2010, con altri, ho fondato Effetrefotostudio a Piacenza.

Prima di allora ho lavorato per diversi anni nell'ambito della cooperazione e del sociale.

Mi piace documentare il paesaggio urbano e le problematiche sociali (immigrazione, marginalità sociale, problemi del lavoro).

Tra i miei lavori: Luoghi e non-luoghi. Una ricerca per immagini sulle periferia urbane, 2008; Italia mon amour. Storie di ordinaria integrazione, 2011; FH. Ferrhotel, 2013; Il quotidiano che non è ovvio. Storie e immagini del campo nomadi di Piacenza, 2016; #H24. Il lavoro non dorme mai, 2018; Appennino: le storie i volti, 2019; Ogni benedetta domenica, 2020

IL QUOTIDIANO CHE NON E' OVVIO

 

In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.

Primo Levi, La tregua

 

La paura di coloro che sbrigativamente ed in maniera dispregiativa ancora oggi vengono chiamati “zingari” è una paura che accompagna le società europee fin dagli albori della modernità: è paura dell’altro, del diverso, del non assimilabile. Nel corso di secoli, nei confronti  degli “zingari” sono state messe in atto politiche repressive  talvolta estremamente violente, culminate nel genocidio di Rom e Sinti durante la Seconda Guerra Mondiale. 

 

Nel secondo dopoguerra, nell’ambito dei forti processi di urbanizzazione avvenuti in tutto il continente europeo, l’emarginazione subìta da queste popolazioni si è cronicizzata. La loro presenza sul territorio è stata via via sempre meno tollerata dalla maggioranza della popolazione, cosa che, soprattutto in Italia, ha spinto le autorità a trattare la presenza di Sinti e Rom quasi unicamente come un problema di ordine pubblico.

 

Sul finire dello scorso Secolo, la creazione in Italia dei cosiddetti “campi sosta” o “campi nomadi” ha di fatto determinato un nuovo paradigma sociale di esclusione. Concepiti come soluzione temporanea, nel volgere di pochi anni i “campi” sono diventati realtà stabili, per lo più situati in zone periurbane, all’interno dei quali intere comunità Sinti e Rom ancora oggi vivono.

 

Ma cos'è realmente un “campo nomadi”? L’immagine stereotipata fatta di roulottes sgangherate e di contesti di vita al limite della legalità che ci viene spesso restituita dai media rappresenta veramente la realtà dei campi? Di tutti i campi? E lo stare all’interno dei campi rappresenta davvero l‘unica prospettiva di vita desiderabile per queste popolazioni?

 

Queste sono alcune delle domande che mi sono posto quando ho cominciato a scattare fotografie nel campo nomadi di Piacenza, dove risiedono stabilmente da circa 120 persone di etnia Sinti. 

 

Ho capito soprattutto che un “campo nomadi”, alla cui esistenza tanti di noi si sono ormai abituati, è un mondo capovolto in cui noi non facciamo altro che rinchiudere le nostre sempre più grandi paure. 

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